Esce "Il sangue non sbaglia", il giallo che il capo della polizia è riuscito a completare prima di morire. Nel caso di omicidio su cui indaga l'ispettore Galasso c'è una dedica alla figlia e ai colleghi di una vita.
La più incredibile delle sorprese Antonio Manganelli l'ha lasciata in eredità. Una busta da aprire dopo, a cose fatte, come quelle piene di segreti che si lasciano, a volte, ai familiari. Come in certi romanzi, come in certe vite, come in certe indagini. Nella busta di Manganelli, morto per un tumore al polmone da capo della Polizia, c'era un libro.
Non è passato nemmeno un mese dai funerali del «poliziotto buono», l'uomo a cui anche i rari nemici hanno reso onore. Nemmeno un mese dalle esequie di Stato, dallo choc delle istituzioni già paralizzate dalle tante assenze della politica, dal lutto dei fiori e delle lacrime. E ora, sentite, ecco: Manganelli aveva scritto un romanzo. Lo ha finito nell'ultimo minuto utile, davvero. E' stato proprio l'ultimo dei suoi pensieri e dei suoi gesti. Questione di ore: c'era una cosa che voleva fare ed era questa, non se n 'è andato prima di aver finito.
Il dovere, del resto, era la regola. Dunque, la più incredibile delle sorprese lasciata in eredità da un uomo che di sorprese aveva scandito l'esistenza - di sollievi repentini e di spaventi improvvisi, di colpi di scena e di svolte imprevedibili - la più inattesa è questa, postuma: il romanzo di Manganelli è bellissimo. Non è una questione di stile né di lingua, di avere un posto nella letteratura. I critici titolati potranno questionare, certo. Non è di accademia che si sta parlando qui, ma di verità e di vita. Il sangue non sbaglia s'intitola quella che di certo è balenata al principio come un'ipotesi di autobiografia, una di quelle idee che si fanno posto nelle notti insonni di una stanza d'ospedale, nelle primavere soffocanti di cure interminabili che sospetti inutili eppure dovute, accettate, accolte.
Questa stanza, la sua, corrispondeva a una finestra del grattacielo dell'Oncology Centre di Houston, fuori i lampioni ordinati a illuminare il verde impeccabile dei prati, i colori e ogni tanto i profumi dei fiori. «Storie d'indagini, facce, schegge di una carriera lunga trent'anni », tornavano a trovarlo nella notte, scrive in prefazione. Ma un'autobiografia è un gesto presuntuoso, ha detto uno di quei giorni ad un amico, e comunque è qualcosa che prelude alla morte. Così quelle storie nei giorni lunghi delle cure americane sono diventate la trama di un romanzo. Giovanni Galasso, il protagonista, un «poliziotto per mestiere per vocazione e per amore». Un caso da risolvere, l'omicidio dell'aristocratica Anna De Caprariis, impeccabile bene-fattrice, ancora bella nonostante l'età, riservata e gentile, strangolata in auto a tarda sera da mano amica. senza un gesto di lotta, senza un urlo, senza sangue.
L'indagine diventa il contenitore di cento storie che arrivano sulle pagine direttamente dalla memoria viva di chi scrive, fatti reali che ad ogni passaggio del racconto si tingono di finzione - riconoscibili, tante - e come in un gioco di scatole cinesi vivono una dentro l'altra, una con l'altra in un continuo richiamo di analogie, di memoria, di ricordi. Roma, Palermo. A Roma dopo aver lasciato Palermo, dopo l'attentato. Proprio come nella vita di Manganelli, arrivato a Roma dopo gli anni di Palermo, il pezzo di strada con Falcone e Borsellino, poi il tempo in cui «il governo fu costretto a fare troppe concessioni per evitare che le stragi continuassero». Troppe. Il giudizio sulla storia è tutto qui, in un solo aggettivo.
Manganelli aveva di certo letto il Pasticciaccio di Gadda e certo l'aveva molto amato. La sua Roma non è quella di via Merulana, è in Prati. Il primo delitto in via Ezio, dietro Cola di Rienzo. Poi Villa Canali, già verso la periferia di lusso dove vive chi non ha bisogno che di alimentare il suo piacere annoiato per spendere i giorni. Al primo sopralluogo in casa della vittima l'ispettore trova una «camera da letto che era un confetto, pareti rosa pallido, copriletto pervinca. Nel cassetto biancheria intima di pizzo» dai colori tenui, come lilla era quella che indossava Liliana Balducci, la morta del Pasticciaccio, anche lei vedova di un marito assente, anche lei altoborghese, anche lei ossessionata dal non aver avuto figli, anche lei insospettabile di ombre. E per quanto certo la lingua di Gadda sia vertiginosa e inarrivabile, fonte semmai di sola ispirazione e di piacere, molto del commissario Ingravallo ha l'ispettore Galasso, moltissimo dei personaggi del condominio di via Merulana hanno i vicini, il portiere, il nipote della morta che in un coro portano ciascuno il suo tassello all'indagine, ciascuno apre o chiude una finestra che si affaccia su un'altra storia, un'altra vita, un altro piccolo mistero.
L'ispettore Galasso vive in questura, stanza 61, circondato da poliziotti come l'ironico e guascone Annarumma omaggio all'omonimo agente rimasto ucciso a ventidue anni durante una manifestazione del '69. Ci sono anche l'amico Alfredo cui deve la vita e il pm Patrizia Monti, minuta e giovane donna che vive sola nella casa dei nonni, coi gatti. Un affresco corale che racconta prima Palermo, «il profumo violento dei gelsomini, il sapore del panino con la milza e la ricotta fresca, le urla dei parenti degli arrestati, l'incenso delle chiese barocche. Tutta l'aria che respiri, piena di dolore e di speranza». Poi Roma, quella dei palazzi umbertini di via Ezio, quartiere Prati, così vicina e così distante dalla vita che le corre dentro. Dice del lavoro di un ispettore di polizia, «che ti impegna ogni secondo, ti occupa la mente giorno e notte e non lascia spazio a niente», che ti insegna a «non dimenticare mai di avere paura, altrimenti abbassi la guardia ed è la paura invece che ti salva la vita». Dice: «Coraggio e paura, solo questo possiamo avere. Poi ci sono l'intelligenza, la furbizia, i contatti giusti. Ma un buon poliziotto è quello che ha la paura contata e il coraggio giusto senza essere un incosciente, senza essere un cacasotto».
L'indagine sull'omicidio della De Caprariis, che a 65 anni che parevano dieci di meno aveva il solo sfizio del bridge con le amiche, passa attraverso e percorre le vite del nipote Luchino, musicista, omosessuale, del suo amico Cenzino, antiquario, del farmacista sotto casa e della signora rumena del quinto, della vecchia zia Eleonora, del Bernini che - orfano - parla ogni giorno con la mamma. Del primario di oncologia al policlinico Filippo Lombardo che porta diritti a un'altra storia di vent'anni prima, a un'altra morta e a un'antica storia d'amore del commissario quando era ragazzo, l'estate ad Anzio.
L'intreccio è solido, la trama agile, i personaggi vivi e tutti chiaroscuri. Tutti pieni di debolezza nella forza. Anche il commissario, certo. Che rende omaggio - Manganelli lo fa - alla moglie Sabina, «discreta dolce e misurata, complice, attenta». La donna che riempie quel che resta del suo tempo, quando il lavoro lascia fiato, in una casa abitata da un cane pastore di nome Bossolo, dalla musica di Jacques Brel, la canzone dei vecchi amanti, dal fumo dei sigari. Una vita come dev'essere stata quella di Manganelli, che si congeda dalla vita con un atto d'amore verso chi l'ha condivisa con lui («a mia figlia Emanuela e a tutti i poliziotti», è la dedica), verso l'Italia, verso il suo lavoro. «E' un lavoro difficile, è proprio una merda ma ci sono dei momenti che sanno annullare tutte le cose brutte e basta ripartire da lì». Ecco, grazie di aver indicato da dove. Dall'amore per il proprio mestiere, basta ripartire da lì.
di Concita De Gregorio, la Repubblica, 17/04/2013
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