di Alberto Stabile, la Repubblica, 26/02/2013
Marcello Sorgi racconta processi e battaglie di suo padre.
Vivere stando dalla parte giusta, anche se scomoda e talvolta ingrata, non era una condizione comune a molti nella Sicilia dell'interminabile dopoguerra. E non lo è tuttora, si potrebbe aggiungere, sebbene da allora le condizioni dell'isola siano profondamente mutate. Nino Sorgi, o per essere più precisi, "l'avvocato-Nino-Sorgi", come veniva chiamato a Palermo, d'un fiato, quasi che la sua professione fosse una parte inseparabile del suo essere, e penso lo fosse, ha speso quasi tutto l'arco della sua esistenza a condurre quella che, se altrove potrebbe ap- parire come un'esperienza normale di vita, nella società siciliana aveva, e ha, il sapore di una sfida.
La prima cosa che si impara, leggendo il racconto biografico ( Le sconfitte non contano, Rizzoli) che il figlio Marcello, editorialista ed ex direttore della Stampa, ha dedicato al padre, è che quella di Nino Sorgi non è stata la scelta individuale di un intellettuale borghese destinata a rimanere un gesto isolato. Pagina dopo pagina, episodio dopo episodio, dando vita a un affresco denso di personaggi e di storie, affiora quell'anima nobile, plurima seppure irrimediabilmente minoritaria della Sicilia, che, per quanto condannata a seguire un percorso carsico, in un continuo immergersi e riaffiorare tra le vicende spesso tragiche della sua storia, è parte integrante della sua identità.
Una sfida, quella di Nino Sorgi, che comincia quasi inconsapevolmente, come possono essere inconsapevoli le scelte degli adolescenti, dai banchi di uno dei tre licei palermitani, l'Umberto, dove la presenza contemporanea e casuale di un gruppo di insegnanti antifascisti aveva fatto germinare in alcuni degli allievi una forte sensibilità sociale e una coscienza politica di sinistra. Non è un caso che dei tre inseparabili "fondatori" di questo nucleo d'impegno civile uno, l'ex senatore Nicola Cipolla, sia diventato comunista, un altro, Nino Sorgi, socialista, e il terzo, il critico d'arte Beppe Fazio, sia stato a suo tempo vicino alle posizioni del Manifesto.
Che, dopo gli anni del liceo, caduto il fascismo, quegli stessi giovani rivolgessero la loro attenzione militante alle grandi questioni che dilaniavano l'isola e ne mettevano in discussione il futuro, come il separatismo, o le lotte contadine, o il riemergere della potenza mafiosa dopo la ritirata subita durante il fascismo, era uno sbocco pressoché inevitabile.
Ed è qui che l'affresco si arricchisce di nuovi personaggi, protagonisti e comprimari di quel-l'altra Sicilia che va riemergendo. Ecco Enzo Sellerio, un altro ¿umbertino¿ destinato a diventare un grande fotografo e un editore di successo. Ecco Lia Pasqualino, che lascerà una taccia importante nella pittura siciliana del dopoguerra. Ecco Michele Pantaleone, il primo studioso e divulgatore del fenomeno mafioso. Mentre sulla scena politica domina la figura di Girolamo Li Causi, il quale, dopo aver passato 18 anni nelle carceri fasciste, viene mandato da Togliatti in Sicilia per organizzare il partito e guidare le lotte nelle campagne.
Non si trattava, infatti, di combattere semplici battaglie di opinione. La realtà che traspare dal libro di Marcello Sorgi è che dallo sbarco degli americani (10 luglio 1943) in poi, la Sicilia è stata scossa da un lungo e sanguinoso conflitto interno, vicino ad assumere le caratteristiche di una guerra civile, la cui posta in gioco era il nuovo assetto di potere che negli anni a venire avrebbe governato non soltanto l'isola, ma il paese intero.
Mafia, agrari, banditismo, settori infedeli degli apparati dello Stato diedero vita a una scandalosa commistione d'interessi la cui prima vittima sarebbe stata la verità su quella guerra. Creando in questo modo un precedente che avrebbe agito come una specie di tara, di difetto genetico destinato a riprodursi, nella formazione dello stato democratico e repubblicano. Non nacque forse lì, a Portella delle Ginestre (1 maggio 1947) l'Italia dei miseri irrisolti? Non fu quella la prima strage di Stato? E non fu l'uccisione di Salvatore Giuliano, per mano del cugino Gaspare Pisciotta, e la messinscena che ne seguì per far credere che il bandito fosse stato freddato in un conflitto a fuoco con i carabinieri, una sorta di trattativa Stato-mafia ante litteram?
A pagare il prezzo più alto e più amaro di quella guerra furono le centinaia di migliaia di contadini che avevano visto nella riforma agraria la speranza di riscattarsi da una condizione di povertà degno della Russia zarista. In meno di dieci anni, sarebbero stati uccisi 55 tra manifestanti e sindacalisti delle campagne. Al processo in cui Nino Sorgi affiancò Sandro Pertini nella difesa di parte civile di Francesca Serio, madre del sindacalista Turiddu Carnevale, ucciso a colpi di lupara sul sentiero di casa, il 16 maggio 1955, per la prima volta una donna, una madre, accusò apertamente gli assassini del proprio figlio. Ma il movimento contadino aveva ormai i giorni contati.
Ho conosciuto Sorgi da giovane cronista di giudiziaria per l'Ora di Palermo, un giornale di controinformazione, a quel tempo e in quel luogo, cui Sorgi aveva garantito per anni assistenza legale. Il periodo eroico delle lotte per la terra era ormai lontano. Era ormai un avvocato di livello nazionale, ma restava un profondo conoscitore della Sicilia e un protagonista della cui opinione chiunque avrebbe voluto capire qualcosa dell'isola non poteva fare a meno.